Tuesday, April 8, 2014

Gli ultimi decenni segnano un rifiuto delle posizioni amorali della politica


Colloquio tra Irene Kajon, Professore ordinario di Antropologia filosofica, Università La Sapienza Roma e Salvatore Dimaggio, Corporate Advisor, Founder and Head, Meet the Manager.

S.D.: Nel '900 il dibattito etico politico è stato dominato dalla figura di Rawls e dal suo ormai imprescindibile velo d'ignoranza che ripristina, almeno nell'esperimento mentale, la posizione originaria. Una bussola etica che richiama alla mente il "talismano" citato da Gandhi come ausilio nelle decisioni della vita.
A dispetto della sua influenza nel dibattito culturale, le istituzioni occidentali e le nostre democrazie non sembrano aver beneficiato significativamente di questa idea, anzi le lobby, così influenti ed istituzionalizzate negli Stati Uniti, sembrano paradossalmente togliere quei pochi residui di velo d'ignoranza che ancora possono spontaneamente connotare chi è chiamato a prendere decisioni che incidono sulla collettività. Un istituto che appare molto in sintonia con il v.d.i. è il blind trust, che tuttavia, ha un'applicazione pratica in un numero talmente limitato di casi da essere poco influente.
A dispetto dell'immagine sempre più umana e comune che i protagonisti delle istituzioni cercano di veicolare anche attraverso i social network, oggi come ai tempi della contrapposizione tra Antigone e Creonte, è presente nel sentire comune l'idea che il confine che divide giusto ed ingiusto per chi detiene il potere sia, in certo modo, articolato differentemente da quello dell'uomo comune: d'altronde Machiavelli attribuisce a Cosimo de’ Medici il detto che gli Stati non si governano coi pater noster in mano.

I.K.: Intendo le riflessioni che mi vengono proposte come un invito a riflettere sul tema del rapporto tra l’etica e la politica. A me pare che il pensiero della seconda metà del secolo XX e del primo decennio del XXI sia percorso da un atteggiamento anti-machiavellico. Non intendo però tanto identificare questo atteggiamento con una critica di Machiavelli, che è figura estremamente complessa e difficilmente riducibile a un’unica dimensione, quanto considerare questo atteggiamento come una critica a una posizione cinica, spregiudicata, amorale della politica. Troviamo in Leo Strauss una critica del machiavellismo inteso in quest’ultimo senso, la troviamo in Jacques Maritain, la troviamo in Emmanuel Levinas. Si tratta di pensatori che si richiamano a una tradizione platonica, dunque concepiscono le relazioni umane intersoggettive e sociali in quanto fondate su un’etica che rinvia a una nozione di Bene trascendente l’esperienza storica. Ma mi sembra che perfino in Norberto Bobbio, un autore studioso del pensiero politico inglese di impronta materialistica e anti-cristiana – basti pensare ai suoi studi su Hobbes – e che certamente preferiva richiamarsi più alla storia e all’esperienza che a ideali oltre lo storico, non vi sia la rinuncia a subordinare il politico a un concetto di giustizia, di integrità morale, di dignità personale. Bisogna tuttavia distinguere tra l’etico e il politico. Uno studioso ebreo francese, André Neher, ha scritto un saggio, pubblicato nel 1962, sul rapporto tra l’etico e il politico, che ha intitolato con i nomi di tre città simbolo, “Gerusalemme, Cesarea, Babele”: la prima, che è la città in cui ebbe avvio la civiltà ebraica e cristiana, sta a indicare i comandamenti e le prescrizioni di carattere morale, provenienti da un’origine divina, che guidano l’uomo nella sua condotta; la seconda città, fondata dal re Erode nel I secolo a. C. sulla costa del Mediterraneo all’epoca del controllo ed influenza dei Romani sulla Giudea, sta a indicare il potere politico che certo ha le sue proprie regole, indipendenti da un’etica che rinvia a una dimensione religiosa, ma che non attenta in modo radicale a tale etica, in certo modo ancora la riconosce, la considera pur sempre la base di ogni associazione umana; Babele, che è la città in cui, secondo la Genesi, il primo libro della Bibbia, Nimrod, uomo potente e arrogante, tentò di costruire una torre alta fino al cielo, sacrificando senza pietà vite umane, e in cui per decreto divino infine gli uomini non si capivano più l’un l’altro, sta a indicare il luogo in cui vige solo arbitrio e violenza. Ora, secondo Neher, Gerusalemme non si oppone a Cesarea: anzi, bisogna che la sfera politica, che implica moderazione, mediazione, gradualità, realismo, anche l’uso della violenza in caso di necessità, abbia distinzione rispetto alla sfera etica, che si riferisce all’assoluto della pace, della giustizia, e del perdono. Altrimenti, se l’etico facesse a meno del politico, pretendesse di costruire immediatamente un mondo secondo le sue proprie assolute misure, assumesse esso stesso le vesti del politico, diverrebbe inevitabilmente totalitario (quante volte, in effetti, la realizzazione immediata di un’utopia in terra si è trasformata in distopia – come già notava Franz Rosenzweig nella sua opera Stella della redenzione, pubblicata nel 1920). Gerusalemme si oppone però sempre a Babele. Dunque bisogna bandire dalla nostra visione della sfera politica il machiavellismo; ma non quella ponderazione delle forze in campo, quel realismo, quell’attenzione per la realtà umana in vista di un cambiamento per una vita migliore degli individui, che dovrebbero essere propri della sfera politica. Nelle società attuali mi sembra vi sia un bisogno diffuso di giustizia, di solidarietà, di libertà, di pace. La politica con i suoi propri strumenti, tenendo conto dell’economia, della tecnica, delle risorse naturali, e con un lavoro di lunga lena dovrebbe considerare tali bisogni.                      


S.D.: L'antropologia filosofica ha le proprie figure di riferimento in Max Scheler, Helmuth Plessner, Arnold Ghelen e Paul Ricoeur. Di particolare interesse è la posizione di Scheler, che attribuisce all'uomo la capacità, unica tra gli animali, di trascendere il proprio Umwelt,  e di essere “l’eterno protestante nei confronti della semplice realtà”, “colui che può dire di no”, “l’asceta della vita”. Questo ritratto dell'uomo come essere che ha la facoltà di rigettare il mondo, cercando o immaginando un'alternativa, è una buona guida per interpretare la tumultuosa evoluzione culturale, sociale e tecnico-scientifica che è parsa procedere con moto accelerato negli ultimi secoli, perché più che individuare l'elemento distintivo dell'uomo nella sua intelligenza, lo rinviene nella capacità di non dare per scontato ciò che lo circonda.

I.K.: L’antropologia filosofica è una disciplina filosofica che può essere intesa in due sensi diversi: in senso stretto è la più recente delle discipline filosofiche (le quali si occupano di sfere diverse della esperienza umana, come la filosofia morale, l’estetica, la filosofia della scienza, ecc.). Essa nasce in Germania, appunto con Scheler, Plessner, Gehlen, che scrivono le loro opere verso la fine degli anni Venti.  Le cause di tale nascita sono state rintracciate nella crisi dell’idealismo hegeliano, la quale implicava il ritorno a considerare l’uomo non tanto nella sua storia, quanto nella sua propria natura; nella necessità che la filosofia si confrontasse con le scienze naturali e umane; nell’interesse per il mondo della vita, tipico del pensiero tedesco tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ma vi è anche un senso lato dell’antropologia filosofica: essa può essere intesa, come le parole greche stesse indicano, come un discorso sull’uomo compiuto da chi ama la sapienza. Dunque l’antropologia filosofica è autoriflessione dell’uomo su di sé. In quanto tale c’è sempre stata fin dalle origini della filosofia, già con Talete. Di questo secondo senso dell’antropologia filosofica ci parlano Ernst Cassirer nel suo Saggio sull’uomo, Berhard Groethuysen nella sua Antropologia filosofica (1931), Martin Buber in  Il problema dell’uomo (1943). Questo secondo senso è quello che io preferisco perché amplia i confini dello studio filosofico dell’uomo sia in senso temporale che geografico: inoltre, non solo filosofi, ma anche scrittori, poeti, personalità religiose, scienziati, offrono materiale per questo studio. Max Scheler, affermando in La posizione dell’uomo nel cosmo (1928) che l’uomo è l’“eterno protestante” nei confronti della realtà data riprende contemporaneamente Platone e la Bibbia: per Platone l’uomo conosce il mondo solo ricorrendo a idee, dunque senza essere, per così dire, appiattito sul mondo, ma dicendo “no” ad esso, sottraendosi ad esso; e per la Bibbia la comprensione del mondo implica che lo neghiamo come realtà data per farlo poi dipendere da Dio (questo punto è bene messo in evidenza da Maimonide nella sua Guida dei perplessi). Si intende che questo “protestantesimo” dell’uomo è la radice di ogni suo fare nel mondo: è la sua intelligenza stessa, che idea e progetta, a porre obiettivi, a invitarlo ad agire. Scheler, allievo di Husserl, riprende non solo da questo filosofo, ma anche da Platone e dalla Bibbia la nozione di idea come ciò che trascende il dato, il sensibile, l’empirico. Tuttavia, a differenza delle sue fonti, Scheler non ha fiducia nel potere delle idee di muovere all’azione radicandosi esse nella vita, ispirando anche affetti e passioni; pensa, insieme a Marx, a Schopenhauer, a Nietzsche, che siano piuttosto gli interessi, le inclinazioni naturali, i bisogni immediatamente sentiti, a muovere l’uomo. La ragione rischiara l’obiettivo, ma è impotente; mentre l’istinto è potente, ma cieco. Un tale dualismo nel concepire l’uomo si comprende in Scheler alla luce del riconoscimento della crisi della ragione che era tipico dei suoi tempi. Ma forse il “no” al dato e la ribellione dell’essere umano nei confronti della realtà circostante implica fin dall’inizio insieme ragione e affettività, l’ideazione e il coinvolgimento anche dell’immaginazione, della sensibilità nell’ideazione.