Thursday, July 18, 2013

Il mito dei "cervelli in fuga" e la necessità di essere attrattivi

Intervento di Leopoldo Benacchio,  ordinario presso l’Osservatorio Astronomico di Padova - INAF, divulgatore scientifico del Sole 24 Ore.


Una folla di talenti, poi fatalmente costretti ad emigrare?
Art by Michela Terzi for MtM
La situazione è più variegata, innanzitutto occorre capire cosa si intende per emigrare e per ricerca. Non voglio essere pedante, ma il fenomeno di cui parlano molto giornali e tv è più riferito alla alta formazione universitaria finalizzata alla Ricerca, come il dottorato e il post dottorato.  Se crediamo nell’Europa poi, e io ci credo, andare in Germania o Francia non è emigrare, ma stare entro un contesto che 50 anni fa non c’era e oggi è casa nostra tanto quanto l’Italia è casa di francesi e tedeschi. E speriamo lo sia sempre di più. In secondo luogo un ricercatore o un bravo laureato se ha passione va comunque dove può fare meglio il suo lavoro ed è molto bene che lo faccia perché la sua missione è fare la migliore scienza possibile. Poi c’è un altro aspetto da considerare: nonostante lo stato difficile in cui versa il sistema educazionale italiano questo vuol dire che riusciamo a formare ottime personalità, ben preparate e che non temono, e in molti casi, non hanno, confronto all’estero. Il punto veramente critico è un altro: quasi nessuno viene da noi in Italia, per le solite ragioni: sistema Paese, stipendi bassi, servizi inefficienti, burocrazia da iniziati ai sacri misteri e così via. E questo è di una gravità eccezionale e tremendamente sottovalutato dai media che si replicano da anni con il mantra dei cervelli in fuga. Inoltre è difficile, molto difficile per un ricercatore valido tornare in Italia, dato che le Università di fatto assumono molto in forma clientelare e nepotistica oramai da anni. Questo aspetto è diventato drammatico negli ultimi anni. La mia generazione ha potuto scegliere, io stesso sono rimasto in Italia, con un duro concorso ma sono potuto tornare, da un’università europea dove avrei avuto una analoga posizione, molto meglio pagata, giusto per essere venale. Il terzo e ultimo esiziale motivo è che per queste cause i migliori vanno via perché hanno voglia di fare e fiche da spendere nel mercato, ma non riescono a tornare mentre le università si stanno riempiendo di persone, a livello di dottori di ricerca poco mobili e che hanno una visione impiegatizia in senso deteriore. Non è infrequente sentire discorsi come “qui mi sono laureato, qui ho preso il dottorato di ricerca e qui mi devono dare un posto”. Questa mentalità pseudo sindacale, in senso deteriore, porterebbe in rovina qualunque istituzione educativa. Da ultimo basta andare sui siti dell’Unione Europea o di Alma Laurea per capire che vanno “all’estero” molti più tedeschi e francesi, ad esempio, che italiani. La vera fuga dei cervelli è all’incontrario: qui non viene nessuno e i nostri bravi non riescono a tornare. 

L'azienda che investe in ricerca
Posso molto modestamente dire la mia esperienza, dato che non ho né una preparazione né un passato aziendale. Dipende dall’azienda ovviamente, se deve produrre non ha scelta, semplicemente perché i suoi concorrenti nei Paesi evoluti la ricerca la fanno e quindi possono fare prodotti migliori o nuovi o a minor prezzo. Certo non è così semplice ma soprattutto oggi che, finalmente, in Italia si parla di start up e innovazione, occorre fare chiarezza. Se si vuole progredire l’innovazione deve andare a braccetto con la ricerca. Posso innovare senza fare alcuna ricerca, ma mi metto in un binario morto per il motivo appena detto, qualcuno prima o dopo farà meglio di me o io non poso innovare in azienda perché non mi vendono la tecnologia, se la tengono per loro. In molti campi, quello spaziale per esempio, questa è la regola. È molto una questione di termini anche qui, ma estremizzare, come ho fatto, spero possa chiarire il concetto. Il problema vero è che la ricerca costa, e parecchio, e non è facile per un’azienda che non abbia grossi margini economici o capitali o dimensioni investire in ricerca. 


Il rapporto tra impresa ed azienda
Credo onestamente, e so di essere impopolare, che entrambe queste istituzioni debbano cospargersi il capo di gran cenere, soprattutto l’Accademia che con una marketing sventurato ha gonfiato di “prodotti” inesistenti la sua offerta. Uno studente, debbo dire molto spiritoso e audace, alla terza volta che cercavo di spiegargli una questione e lui non riusciva a capirla mi disse “era meglio se facevo Scienza delle Merendine”. E’ così che i giovani chiamano questi corsi di laurea inventati per attirare studenti facili e basati su praticamente nulla, con il 50% dei corsi tenuti da neolaureati ovviamente senza alcuna esperienza. Purtroppo inutili a tutti. Ora la situazione è migliorata molto, ma eravamo arrivati a picchi incredibili. Questo non prepara al mondo del lavoro, anzi, e non facilita i giovani che credono di avere una preparazione che non hanno proprio.  Penso si debba tornare a un minor numero di corsi di laurea più solidi e meno ciarlieri che diano capacità di base che si sono perse e che permettono di adattarsi e applicarsi alle realtà lavorative. Per la parte industria credo che il modello bavarese, regione in cui ho lavorato, sia il migliore. L’industria lì si prende carico di una parte, in genere quella finale, della formazione già a livello dell’ultimo anno di studi. Molte tesi poi vengono svolte addirittura dentro le strutture industriali interessati. Questo porta benefici anche perché si instaurano rapporti fecondi e corretti: l’Università diventa il posto dove si hanno idee, non necessariamente giuste ma comunque da provare, si sperimentano e se funziona il prototipo lo si passa all’industria per la ingegnerizzazione.  Oggi come oggi gli/le stagisti sono visti come un peso e una perdita di tempo, e i/le molti dottori di ricerca oramai “prodotti” non servono in un Paese in cui l’Industria di ricerca ne fa molto poca. Per questo anche i “cervelli” fuggono, qui non possono essere assorbiti tutti dalla ricerca universitaria o degli Enti. 

Piccolo diario di un astronomo
Nella parte di ricerca ricordo con stupore e meraviglia il giorno in cui è stato scoperto Caronte, il satellite di Plutone, dai telescopi spaziali. Avevo lavorato per quasi 5 anni, con colleghi di Padova e dello US Naval Observatory, alla determinazione dell’orbita di Plutone, che ricordo è stato scoperto neanche da 100 anni e compie un giro attorno al Sole in quasi 300. Sia noi che gli americani trovavamo un andamento erratico, anche se minimo che non capivamo e scambiarci i dati non migliorava nulla. Teniamo conto che quelle di posizione in cielo sono osservazioni e misure delicatissime. Da terra nessun telescopio di allora, stiamo parlando del 1980 ero appena laureato, poteva vedere il satellite per cui quel che si osservava era una piccola pallina luminosa che cambiava leggermente di luminosità e forma, anche oggi è così a causa dell’atmosfera. Il telescopio spaziale, che vede molto più nitidamente dato che sta a centinaia di chilometri di altezza senza la frapposizione dell’atmosfera, appena inquadrò Plutone fece scoprire il suo maggiore satellite, Caronte. Stupore e contentezza e, non lo nego, anche delusione nel gruppo di ricerca, ma nessuno avrebbe mai potuto scoprirlo dal suolo.  Nelle conferenze invece le domande sono standard e ben note, l’astronomo si occupa “di cielo”, il luogo dove da sempre l’umanità mette gli dei, i castighi , i desideri e le punizioni “divine”. Ecco quindi domande sugli UFO, sugli extraterrestri, sull’esistenza di Dio. Da non dimenticare il grande classico: “Ma lei crede all’astrologia”. Rispondo sempre così: “Personalmente sono molto scettico, come tutti i Sagittari”  

Sistemi complessi
A differenza di molti colleghi appassionati di cielo fin da ragazzi, quel che mi ha fatto decidere a prendere questa direzione nella ricerca in Fisica è stata l’interesse e passione per i sistemi complessi. Ovviamente stelle, galassie e l’universo intero sono i sistemi fisici migliori che uno può sperare di studiare in questo senso. Abbiamo a che fare con masse, densità, energie che non hanno eguali e che non riusciremo mai, neanche lontanamente, a ottenere sulla Terra e lavoriamo sempre ai limiti del possibile e della conoscenza. E’ anche stimolante il fatto che l’astronomia è la scienza più estrema fra tutte dato che i segnali sono incredibilmente deboli e i conti da fare appunto “astronomici”. Per queste richieste stressanti la nostra è una delle discipline che produce maggiori ricadute utili di tipo tecnologico, utili per la vita di ogni giorno come migliori lenti a contatto, migliori ottiche per le apparecchiature a raggi X, migliori sensori per pesare le polveri sottili e così via, ci sono decine di applicazioni ogni anno che passano alla produzione. Il pubblico spesso pensa che noi si stia ad ammirare il cielo, e quello possiamo farlo come tutti in una bella notte stellata, ma noi come compito facciamo fisica ai limiti del possibile usando il più grande laboratorio a disposizione, l’Universo. 

Cosa trasmettere come docente e divulgatore?
Innanzitutto concetti, pochi, non quelle valanghe con cui il pubblico spesso viene aggredito da troppo zelanti oratori o scrittori, e informazioni corrette. Il tutto, se riesco, anche in modo stimolante.  Come insegnante spero di far capire che studiare è un grande privilegio, molto sottovalutato oggi nel nostro Paese purtroppo, vorrei trasmettere la necessità di essere rigorosi nella ricerca e severi con sé stessi. Come divulgatore spero di riuscire anche a trasmettere curiosità e stimolo a saperne un po’ di più. Ma in entrambi i casi sarei felice di poter dire che sono riuscito, almeno un po’ a trasmettere passione e entusiasmo per la conoscenza, non necessariamente per la mia materia.